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astici a corda
Le cucine a vista dei ristoranti mi hanno sempre colpito particolarmente.
Una finestra su di una fucina vivissima dove la materia viene raffinata o semplicemente lasciata essere.
Sabato mi sono affacciato su di una cucina di un ristorante al mare. Davanti a me una montagna di astici uno sull’altro e seduto a contemplarli in maniera malinconica un uomo anziano, lo chef. Barba bianca, occhi piccolissimi e un fazzoletto malamente annodato alla gola. La cucina in realtà non è il suo luogo di elezione. A cucinare sono due cuochi marocchini bravissimi mentre il vero chef, il fratello maggiore dopo anni di fornelli si è trasferito in sud america, fuma havana e beve solo calvados. Si sa il ristorante lo fa lo chef, ragion per cui è il fratello minore a sostituirlo, per intenderci quello che non è stato mai bravo a cucinare, quello a cui piacevano le moto e bighellonava con le ragazze tutto il giorno, ma ha avuto la sventura di essere molto somigliante al fratello maggiore.
Così se ne sta tutto il giorno in una cantina buia a dare la carica ad astici meccanici, sale in cucina solo per tranquillizzare i clienti e fargli credere che è ancora lui a cucinare.
Il suo sguardo si fa più malinconico ogni giorno che passa, beve di nascosto wisky sperando che la giornata finisca presto.
Io nel frattempo mi sono seduto, è arrivata l’orata e per prima cosa ho messo da parte le sue sue delicatissime guance, sorrido di gran gusto e ripenso a ginostra, alla chiesa e alla sua terrazza sul mare.
larva convivialis
Qualche settimana fa ero a Roma e ho perso il treno. Cosi mi sono deciso a visitare finalmente il Museo Nazionale Romano accanto alla stazione Termini. Dopo una carrellata dinanzi ad statue imperiali, resto come sempre molto più affascinato da figure tardo-antiche che traspirano quasi l’inquietudine della dissoluzione dell’impero. Quel caos caratteristico del tardo-antico che nulla a che vedere con luminosità dell’età augustea. Si affacciano nei bassorilievi copricapi Frigi, ripenso al Sol Invictus, alla Magna Mater al cielo stellato del Mitreo dell’antica Capua. La mia attenzione si ferma su di uno scheletrino d’argento, corredo di un banchetto sontuoso. Larva convivialis il suo nome buffo, scopro che il nome viene da un passaggio del Satyricon.
“Mentre noi dunque beviamo, tutti compresi ed estatici davanti a quelle lussuosità, uno schiavo portò uno scheletro d’argento, costruito così che le sue giunture e vertebre snodate potessero piegarsi da ogni parte. Avendolo buttato una volta o due sulla tavola e ogni volta quel mobile congegno assumendo posizioni diverse, Trimalcione commentò:
Ahinoi miseri , come è nulla l’intero omuncolo! Cosi saremo tutti, dopo che l’Orco ci avrà rapiti! Dunque viviamo finchè possiamo ancora spassarcela!” Petronio – Satyricon- 34.8.
Ne resto folgorato. Un monito preciso, un inno alla vita senza precedenti. Una vita svuotata completamente di possibili orizzionti metafisici. Un memento mori capovolto e riportato al significato originale. La morte come prospettiva di fine del corpo e quindi come fine di tutto. Non è un caso che in moltissime epigrafi funerarie il riferimento sia alla terra fredda, alla mancanza del sole che esperisce il defunto e con esso il dolore per la perdita del mondo.
estasi a 24.90
Supermercato, Milano ovest. Mi imbatto in questo costume curioso. Un giovane indossa un saio domenicano o francescano non saprei dire. E’ in evidente stato di estasi (ex-stasis letteralmente stare fuori) pronto ad accogliere la verità. Sfere colorate gli fanno da sfondo e soprattutto un’aura verdina lo circonda a metà tra Star Trek ed un porno dei primi anni ’80. Altro che Santa Cecilia….
grande paesaggio ritrovato
Le figure dell’ultimo Ricciardi non sono morsicate come accadeva in passato.
Si dissolvono, questo è l’elemento nuovo. Un inesorabile essere soggetti al tempo, al lavorio del tempo. Lo spettro della natura maestosa e minacciosa che continua a fare il suo corso inesorabile.
I due amanti perdono consistenza, in un abbraccio ad occhi chiusi, pronti a far fronte a quello che sarà. Come sotto una pioggia torrenziale, faticano a mantenere la propria corporeità integra.
I colori accesi di ciò che è lontano (nello spazio ma anche nel tempo) si fanno cupi e saturi quando rappresentano quello che è vicino.
Riflessione sull’inesorabile ed estremo tentativo di trovare un significato?
Resta solo l’abbraccio a dare struttura ad un paesaggio scomposto, sospeso ed assolutamente a-temporale.
Foodart – chef matteo torretta
Chiariamoci, il nome è veramente terribile, accostare cibo ed arte non ha nulla a che vedere con come io vedo la cucina. I tavoli del locale però sono belli, tavole uniche da 20 di rovere di slavonia massello, piacevoli da sentire al tatto e un bell’ albero di ulivo all’ingresso. Tutto super white, strizza l’occhio al minimal, e due camerieri che sembrano usciti fuori dallo showroom di Dolce e Gabbana. Insomma, dove sono finito? Il menu è gradevole graficamente, inziamo con dello champagne per amplificare leggermente i sensi. Uno dei due camerieri si contraddistingue per essere particolarmente poco simpatico, seguendo l’idea che l’essere un pò scortesi possa essere un deterrente positivo, come a dire voi siete qui per i piatti, loro si che hanno qualcosa da dire.
La mia scelta ricade su:
– I crudi di Matteo Torretta
– Orata con vellutata di zucca e mandarino
Dopo una fogliolina al sapore di ostrica, iniziamo a sorseggiare uno Chablis, che non ho scelto io e che non amo particolarmente. I crudi si presentano bene, per prima cosa succhio per bene la testa del gambero. Il suo sapore intenso mi fa impazzire, penso ai banchi di sicilia, al banco Inferno, alle saline di Trapani. Poi ricciola e uova di storione con aneto.
Arriva l’orata, un filetto alto che lascia pensare ad un pesce di taglia, non è d’allevamento per grazia di dio. La carne è soda e gradevole, il mandarino si sente appena e non guasta affatto.
Il dolce lo salto, passo ad una grappa di Teroldego visto che non hanno neanche Barbera, ripenso a Bianca, alla Giordania ed alla tabaccaia ma questo purtroppo non mi basta.
Cose che ho imparato:
– Mai lasciarsi ingannare dalla bellezza dei tavoli di un locale
– Il nome di un locale dice molto più di quanto si possa immaginare
derive psico-geografiche
Stamane il mio telefono squilla alle 10.37, è Augusto, che fino a poco tempo fa aveva letto solo nei libri l’esistenza delle 10.37 del mattino. Vista l’assoluta eccezionalità dell’evento mi precipito a prenderlo nella sua zarevole dimora.
Pioviggina lentamente, scende con un pastrano blue notte, ed un ombrello nero dal manico di legno, la sua nobile persona si staglia leggiadra davanti i mie occhi, lasciandomi pensare al Fürstenberg (si proprio quello che combatte contro Giovanni dalle bande nere).
Per prima cosa ci dirigiamo in un famoso bar in zona Isola, è qui che ha inizio la nostra esperienza di pura psico-geografia, il nostro intento è quello di toccare punti della città formando una scritta immaginaria, anche se non siamo certi assolutamente di quello che ne verrà fuori.
Dopo un espresso sorseggiato lentamente iniziamo a vagare, apparentemente senza meta.
Il mercatino di Piazzale Cuoco ci accoglie freddamente, il fango, l’atmosfera post industriale, la nebbiolina non aiutano di certo, la nostra attenzione si ferma su una cucina da campo dell’esercito italiano.
Compriamo solo due cose, del pane pugliese e 2 cd a prezzo stracciato.
Ci muoviamo velocemente verso la meta del nostro pranzo, il Mongolian Barbecue, dove mangiamo in abbondanza carne alla brace condita con un liquido bianco altamente infiammabile, sarà paraffina? Mah…
Molliamo l’auto e dopo un caffè in piazza 24 Maggio, uno in corso Genova ed uno in via Savona i primi tremori iniziano giustamente a ricordarci di smettere di bere caffè. Approdiamo assolutamente per caso in un mercatino in cui ci viene richiesto di firmare una liberatoria perchè stanno girando un documentario, ovviamente firmiamo tutto, con nomi fasulli, io Nathan Fake, lui James Holden (solo per la consonanza con il ciuffo).
Scappiamo dal mercatino vintage, ripiombiamo in porta genova, poi di nuovo 24 maggio, poi colonne san lorenzo ( il disegno sta per prendere una certa forma) poi di nuovo via vigevano (ma solo a ricordare il noto mostro).
Birra media chiara con un amico che sembra uscito direttamente da un opera di Oscar Wilde e poi via fino a via Malaga. Sono le 20.10 e abbiamo compiuto il nostro tracciato, ricomposto abbastanza precisamente, ci ha restituito due lettere. Solo due lettere IG e questo a mio avviso dice tanto.
Colonna sonora:
Lone – Emerald Fantasy Tracks – Magic Wire Recordings
Ludovico Einaudi – Divenire – Decca