A distanza di due anni dalla lettura di quello che onestamente è il libro italiano più bello che abbia letto negli ultimi anni, mi decido a pubblicare queste poche righe di commento ad un’opera sagace, lucida capace di restituirci come non mai, l’angoscia della ricca urban sprawl che la media borghesia italiana sta costruendo attorno alle grandi città.
Il linguaggio riflette la struttura del pensiero, questo fatto è assolutamente evidente nella tagliente collana di racconti di Giorgio Falco. Un linguaggio sbiadito, dalla sintassi elementare, che finisce per riflettere in maniera nitidissima il vuoto della nuova periferia milanese, in cui la piccola borghesia sempre più impoverita si è rifugiata tentando di scappare dalla città.
Nove racconti brevi, il cui filo conduttore è da un lato il luogo: Cortesforza non-luogo di nuovissima costruzione a 18 km da Milano, tessuto urbano senza storia e scarsissima dignità architettonica la cui unica funzione è quella di fare da sfondo ad esistenze sbiadite vittime della contingenza economica ineludibile e che non lascia scampo. L’altro elemento conduttore è il vuoto. Un vuoto fatto di villette a schiera per cui ci si è dovuti indebitare per il resto della propria vita. Ma anche il vuoto di esistenze che non trovano compimento, che si dibattono accompagnate da un avere smesso di aspirare alla felicità tendendo verso un possibile quanto deludente surrogato. Fa da sottofondo il rumore di asciugatrici che non riusciranno mai a fare il lavoro del sole e del vento, prato inglese ingiallito e collinette artificiali costruite per movimentare il paesaggio piatto della campagna lombarda.